domenica 29 aprile 2018



A Quiet Place, 2017, dir. J. Krasinsky

" Ma il silenzio fa rumore, gli occhi hanno un amplificatore...quegli occhi ormai da sempre, abituati ad ascoltare...i tuoi occhi scendono le scale, non so cosa vanno a fare, se a commuoversi o sognare, ad arrabbiarsi o a meditare.."
Le Persone Silenziose, Luca Carboni.

Dopo aver visto il film, non son riuscita ad impedirmi di pensare ad una canzone di Carboni di qualche decennio fa: Le persone silenziose.
Il paragone è ovviamente molto azzardato, anche perché i protagonisti effettivi della canzone erano delle persone semplicemente timide e spaventate da se stesse e dall'idea che gli altri potrebbero avere di loro, una volta conosciuti i loro pensieri. 
E' certamente una situazione gestibile, rispetto all'idea che dei mostri ciechi (tanti e parecchio brutti) percepiscano anche il più piccolo rumore e, una volta individuata l'origine, sterminino violentemente la preda.

Mi sono concessa questa digressione, perché ho la sensazione che il film di Krasinsky, viaggi su un binario parallelo a questa canzone: il silenzio, in entrambi i casi, sembra essere l'unica via di fuga. E gli occhi, gli sguardi, le sfumature dei gesti sembrano diventare cruciali come unica fonte di comunicazione. 
L'unico linguaggio che ci si può concedere, per sopravvivere, è quello dei gesti. 
O frasi al limite del sospirato, quando ci si trova accanto ad un fiume o nei pressi di una cascata. 
Si soffre con la mano sulla bocca, se per sbaglio si inciampa e ci si fa male. 
O quando purtroppo ci si vede strappata una persona cara proprio davanti agli occhi, senza poter far nulla. 
Ci si ama abbracciandosi e ballando con gli auricolari, mentre Neil Young canta Harvest Moon e i bambini stanno dormendo. 
Ci si rintana in cantina, da sempre l'archetipo di luogo più pauroso di tutta la casa, ma in questo caso un posto isolato dove si spera di essere irraggiungibili in caso di un rumore improvviso. 
Ma, come si scopre, non si è al sicuro nemmeno là. 
E ci si chiede, come fa Emily Blunt da genitrice coscienziosa ma forse impotente, "Che cosa siamo se non possiamo proteggere le nostre creature?" 

Da più parti, vedo che si classifica il film come un horror. Ma secondo me è solo un aspetto limitato della faccenda: mi viene più in mente un richiamo alla Suspense di hitchcockiana memoria, con un scollamento tra quello di cui sono a conoscenza gli spettatori e ciò di cui sono a conoscenza i personaggi; o se non vogliamo andare così indietro nel tempo, penso alla tensione magistralmente manipolata e dosata dei film di Night Shyamalan. 
Sin dall'inizio, si è un passo avanti alla semplice sorpresa( più caratteristica del genere horror)di far apparire improvvisamente un qualcosa o un qualcuno che non si attende: l'effetto ansiogeno è commisurato al grado di consapevolezza e di conoscenza del pericolo che grava sul personaggio.

Tutto il film è una sorta di umana resistenza di fronte ad una forza eccessiva che cerca di sterminare; pur non essendo un vero e proprio film sulla famiglia o sulla perdita, è comunque una questione famigliare e di rapporti padre/figlio, che si inserisce in un discorso più allargato di reazione umana:"C'è molto più coltello tra di denti nell'immaginare una vita diversa e non smettere di ipotizzare e inventare rimedi che nel correre a perdifiato incontro alla bella morte" [cit.] , ho letto da qualche parte. 
E non posso essere più che d'accordo.

Hitchcock costruiva la sua idea di suspense mettendo lo spettatore in uno stato di ansiosa attesa, spesso rinforzata da temi musicali, ombre, luci particolari. 
Qui Krasisky, come regista, fa ancora meglio, andando oltre il convenzionale: avendo un budget abbastanza modesto, relega le creature ad apparizioni veloci, istantanee e feroci, e in poche scene le vediamo esattamente per quello che sono effettivamente: mostri a metà tra un enorme padiglione auricolare e i demogorgoni di Stranger Things. 
E non sarà mai il sonoro a scandire il film nella sua interezza, ma i diversi piani dell'immagine e il modo in cui i personaggi vivono in essa: un emporio abbandonato, i passi segnati sul parquet nei punti in cui le assi non scricchiolano, giochi elettronici negati ma presi di nascosto, un chiodo appuntito lasciato su uno scalino che ti fa subito pensare che DOPO accadrà qualcosa. Emily Blunt in attesa di un figlio.

Krasinsky cerca di tenere insieme due dimensioni della storia: la paura in sè stessa e la grande paura, profondamente genitoriale, di non poter proteggere le persone che più amiamo dai pericoli. E  centra perfettamente il punto.

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