"E MI DOMANDAVO SE UN RICORDO E' QUALCOSA CHE HAI ANCORA O
NON PIUTTOSTO QUALCOSA CHE HAI PERDUTO…"
— Un’altra donna, Woody Allen
All'inizio di questa settimana, un altro pezzo grande della mia famiglia se n'è andato via.
Lei era una prozia, ma per me è stata sempre la zia...anzi, era la "Zzia",
come si dice dalla mie parti, con un rafforzativo che voleva essere una sorta
di forma di rispetto e di distinzione rispetto alle zie vere e proprie.
L'avevo salutata a Natale, lasciandola in buona salute,
giusto con qualche acciacco usuale dell'età.
Ma succede sempre così, anche se ci pensi che gli anni passano e non si fermano.
Succede così, quando proprio non ci stai pensando.
(Succede così, quando i medici non fanno i loro dovere e intervengo quando ormai è tardi.
Ma chiudo la parentesi qui, perchè altrimenti cambierebbe il senso del post).
E quando succede, capita che la scomparsa di queste persone,
porti via con sè pezzi grandi della tua vita,
momenti ai quali ti capita di pensare così raramente
che ti chiedi se poi siano successi veramente
o te li abbiano semplicemente raccontati.
Ma poi capita che quella persona non c'è più e
questi momenti cominciano a vorticare insistentemente nella memoria.
Penso a lei e al fatto che il mio secondo nome era uguale al suo.
Penso alla sua condizione di donna non sposata e senza figli.
Mi sono sempre chiesta se avesse rimpianti, se avesse aspettato (come me) qualcuno che
poi alla fine non è arrivato, se lo aveva scelto lei coscientemente o se semplicemente non è
accaduto. Ma non è capitata mai l'occasione.
Eppure non è mai sembrata disperata della sua situazione, ma serena e sempre con la battuta di spirito pronta.
Ed io l'ho sentita caratterialmente sempre molto vicina:
ne ho ammirato la forza d'animo, ne ho stimato l'orgoglio,
ne ho ammirato la forza d'animo, ne ho stimato l'orgoglio,
spesso ho condiviso la sua visione del mondo e delle cose
e quel modo di tenere testa alle sue sorelle e alle sue nipoti, le mie zie,
quando cercavano di convincerla a fare cose che non voleva fare.
e quel modo di tenere testa alle sue sorelle e alle sue nipoti, le mie zie,
quando cercavano di convincerla a fare cose che non voleva fare.
Ha ceduto quando era ragionevole farlo e ha tenuto duro quando lo riteneva opportuno.
Penso a lei, piccola e minuta, nel soggiorno di casa sua, seduta ad una seggiola di quelle antiche
a guardare la tv, con la luce spenta.
Abitava in una piccola casa sul corso principale del mio piccolo paese,
e nelle mie uscite adolescenziali, trascorse a passeggiare avanti e indietro sempre sulla stessa via,
passavo e ripassavo davanti a casa sua. E lei era lì, immersa nella sua tranquillità.
Oppure seduta a conversare con la sua vicina, nella casa di fronte.
Viveva la sua giornate divisa tra casa sua e casa della nonna, che era più grande e accogliente,
ma amava il suo angolo in maniera profonda e radicata, essendo a volte anche molto gelosa
di quel luogo.
Penso a lei e alla sua inseparabile bicicletta azzurra, sempre la stessa già da prima della mia nascita,
che continuava ad usare ancora ora, nonostante l'età, per sbrigare le commissioni di tutta la famiglia.
La rivedo spuntare dall'angolo della strada, ogni giorno sempre alla stessa ora,
in direzione della casa della nonna materna, la cui famiglia è stata la famiglia che lei non ha avuto.
Penso a lei e ai foulard a fiori che era solita indossare sulla testa per proteggersi dal freddo,
o semplicemente come abitudine delle donne di casa.
Penso a lei che va in chiesa insieme alle sue due amiche, quelle con cui era cresciuta
e che conosceva da tutta la vita: tra di loro si chiamavano "comare" anche se non lo erano veramente,
come da usanza di un battesimo o un matrimonio.
Ma loro erano le comari e per abitudine alla fine anche io ho cominciato a chiamarle così.
Penso a quel Natale di quando avevo 6 anni e lei mi regalò la Camilla bionda.
Ce l'ho ancora, riposta in qualche scatola, magari un po' spelacchiata,ma c'è ancora.
Penso al telaio antico da tessitura che aveva nell'anticamera,
che per tutti gli anni della mia adolescenza, è stata la prima cosa che
mi ritrovavo davanti agli occhi entrando a casa sua.
Penso al fatto che credo fosse una delle poche, se non l'unica, ad avere un telefono di una volta,
uno di quei vecchi telefoni della Sip, grossi e robusti "mattoni" con la ruota frontale per digitare
il numero telefonico. L'unica volta che ho provato a ricaricare il cellulare da quel telefono,
la voce mi diceva che dovevo spingere il tasto cancelletto o riprovare da un altro telefono.
Penso al cofanetto per i gioielli in legno che le ho portato come ricordo la prima volta che sono
andata in gita a 7 anni con la scuola. Era ancora lì sul suo comò, dopo quasi 26 anni,
ed era come nuovo, quasi fosse uscito poche ore prima dalla scatola.
Penso a quando mi prestava i libri che aveva scritto un suo amico di vecchia data,
che raccontavano la storia e l'evoluzione del paesello e dei suoi abitanti, e mi spiegava
pazientemente chi fossero quelle persone che io non riuscivo ad inquadrare, la loro storia familiare,
la strada in cui vivevano, i ricordi che a volte la legavano a loro.
Penso alle volte in cui mi ha preparato la colazione, ai giorni in cui mi accompagna o veniva a prendermi
a scuola, che era vicinissima a casa sua- ai pranzi con lei e con i nonni.
Penso al suo posto sempre a capotavola, opposto al nonno, perchè quello era il posto più vicino alla cucina
ed era lei ad occuparsi di tutto o a dare una mano alla nonna.
Penso alle discussioni con la nonna, che mi ricordano le mie discussioni con mia sorella:
ci diceva sempre, in dialetto strettissimo, "siti comu lu cane e la muscia" ("siete come cane e gatto"),
ed io spesso la canzonavo scherzosamente di rimando, quando la vedevo battibeccare con la nonna.
Penso al fatto che ha cresciuto ben 3 generazioni di nipoti come se fossero tutti figli suoi,
con la stessa cura di una madre e con l'immenso affetto di una nonna.
Era il volto silenzioso della casa della mia infanzia e della mia giovinezza,
e non so quantificare quanto grande è il vuoto della sua assenza.
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