giovedì 28 gennaio 2016


"Rocky: Bella vista. Sai, se guardi abbastanza intensamente 
riesci a vedere tutta la tua vita da quassù.
Adonis: Come ti sembra?
Rocky: Per niente male. E la tua?
Adonis: Per niente male."

Creed, 2015 dir. R. Coogler

Per gran parte del film non ho potuto fare a meno di  guardare le mani di Stallone. 
La loro enormità. La loro rudezza. Il modo in cui le muoveva per insegnare o anche solo per toccare gli oggetti che aveva intorno. Sembra abbastanza assurdo, se ci si pensa, ma a me sono sembrate davvero le mani di un pugile. Di un pugile che ha combattuto assai e, ovunque va, porta con sé i segni di chi è stato.

Se c'è una cosa che a Stallone è riuscita in maniera magistrale, è proprio l'aver restituito un'umanità profonda al personaggio che lui stesso ha definito "il suo migliore amico." 
E ci riesce talmente bene che nonostante il protagonista non sia più lui, la scena è tutta sua in ogni caso. Il carisma di un Rocky ormai vecchio,nel fisico e nello spirito, solo e senza Adriana (soprattutto senza Adriana...), fuori dal giro dello sport che lo ha fatto diventare un mito vivente, che si aggira schivo per le strade di Filadelfia, che legge il giornale e porta un paio di occhiali che gli danno l'aria di un pensionato senza troppo da fare, sovrasta in tutto e per tutto (e inaspettatamente) il giovane pugile dal nome ingombrante e dalle grandi speranze che vuole diventare il nuovo lui. 

La cosa rischierebbe di avere un che di patetico, ma ci si trova di fronte a qualcosa che assomiglia di più ad una solitudine composta e fiera, che metterebbe quasi in soggezione, se non fosse che esprime invece tanta misurata tenerezza (cosa che, secondo me ha contraddistinto lo spirito del personaggio un po' in tutti gli episodi della saga, anche quelli in cui la sceneggiatura reggeva di meno).  In un certo senso, nel mio immaginario, è come se Rocky fosse diventato Mickey. Ma la sua saggezza, la sua maturità, sono diverse, perché non hanno le stesse radici del suo vecchio allenatore (settantenne già nel primo capitolo del 1976), e lo spessore del personaggio che viene fuori da questa "nuova realtà", da questo "mondo che è andato avanti", va oltre quello che potrebbe essere lo stereotipo del vecchio allenatore di boxe, paternalista e duro, che ne ha viste tante ma ha vinto poco e allora cerca il riscatto in un pupillo. 

Il Rocky allenatore è una figura meno dura e più sensibile: reca in sé la concretezza e la conoscenza tecnica diretta dell'ambiente e dello sport che è stato la sua storia e la sua vita, ma allo stesso tempo è come se dovesse imparare ad essere mentore e punto di riferimento per qualcuno che vuole seguire le orme di un padre che non ha mai conosciuto e di cui, in qualche modo, lui è l'unico sostituto. Quando Rocky si presenta in palestra, dopo aver rifiutato più volte di diventare allenatore di Creed, quello che dice è " non so nemmeno cosa ci faccio qui. Avevo altri piani per la mia vita e questo non era nel mazzo."
E quando decide di allenare il ragazzo, Rocky sa benissimo quello che sta facendo, ma allo stesso tempo non sa bene quello che l'aspetta. Certamente per entrambi significa affrontare il loro passato per aver ragione del loro futuro, in un percorso simile a quello di due rette parallele destinate inevitabilmente ad incontrarsi all'orizzonte, sfidando in un certo qual modo le leggi della fisica umana.

Il districarsi della storia non porta tante sorprese, tutto si svolge in maniera abbastanza prevedibile, eccetto per un paio di snodi e motivazioni della sceneggiatura che secondo me potevano essere sviluppati meglio o in qualche caso proprio evitati. Gran lavoro della parte tecnica, quella legata proprio ai dettagli riguardanti l'incontro e le regole dello sport, che ha reso l'interpretazione di Stallone ancora più credibile e perfetta. 

Se, dopo 40 anni, Stallone vincesse veramente l'Oscar, il cerchio si chiuderebbe. E lo farebbe veramente meritatamente e con la migliore interpretazione di tutta la sua carriera. 

Nessun commento:

Posta un commento