lunedì 14 marzo 2016


" Io solo una cosa vojo sapè...ma tu chi cazzo sei? Ti ha morso un ragno? Un pipistrello? Sei cascato da n'artro pianeta?" - Lo zingaro
Lo Chiamavano Jeeg Robot, 2015 dir. G. Mainetti
" Qua in Italia famo storie banali con  personaggi impossibili, cioè che non esistono. Le cose più belle le fanno quelli che fanno storie impossibili con personaggi reali"
Intervista al regista su Nocturno.it

L'ho visto al cinema due volte e, se ne avessi il tempo, lo vedrei anche una terza. Ma non tanto perché il film sia un capolavoro che entrerà negli annali della cinematografia italiana: ha i suoi limiti e le sue imperfezioni e questo lo sa bene anche il regista. E magari è proprio per questo che ha una sua perfezione, una sua originalità, un qualcosa che lo rende talmente particolare da averlo fatto diventare un piccolo cult in nemmeno due settimane di programmazione.
Lo rivedrei una terza volta solo per capire cosa aspettarmi la prossima volta che andrò a vedere un film di Mainetti. Ché la cosa non è per niente scontata.

La prima volta che sono uscita dal cinema, nell'aria piovosa di un sabato pomeriggio torinese, continuavo a pensare:"non è quello che sembra". E il mio giudizio si era risolto in un grande "non lo so" che scivolava come la pioggia nelle pozzanghere che cercavo di evitare, assorta com'ero a pensarci ancora. 
Ci pensavo non perché le mie aspettative fossero state deluse, ma perché non avevo preventivato la svolta narrativa drammatica che è il cuore del film. Né ero preparata al coinvolgimento derivato dall'atmosfera che si respira in ogni fotogramma,una sorta di spiazzamento che è andato oltre la classica sospensione dell'incredulità propria del caso. Continuavo a ritornare con la mente a quando sono andata a vedere "Million Dollar baby",più di 10 anni fa, e a quanto ero rimasta abbastanza colpita dalla capacità di Clint Eastwood di imprimere una virata fondamentale a quello che mi aspettavo fosse una sorta di Rocky al femminile e invece no. 
Ecco, Mainetti ha fatto più o meno la medesima cosa: ha usato quella che io chiamo la filosofia morale di un anime giapponese, che ha segnato l'infanzia/adolescenza della quasi totalità del pubblico che è andato a vederlo, non per fare intrattenimento ludico e un po' di nicchia, ma per andare oltre e "raccontare una storia impossibile con personaggi reali". 
Per raccontare Roma e i suoi quartieri più malfamati e difficili; per raccontare il disagio di alcune anime in pena che non hanno altro modo per sopravvivere se non quello di crearsi un mondo dissociato dalla realtà; per raccontare quello che uno, cresciuto dalla parte sbagliata della barricata, convinto di non aver altra via se non quella di delinquere e sopravvivere, in una deriva che lo allontana da chiunque, è costretto ad essere e a pensarsi.
E poi all'improvviso l'impossibile. E lui, un antieroe dichiarato che sopravvive ai margini,alla fine diventa un eroe al di là di tutto. Al di là del dolore, di se stesso, del male che ha intorno, della perdita che subisce. E' un eroe che lo voglia o no e ci fa i conti fino in fondo,pagando anche un prezzo alto.

In questo film, ho realizzato poi, sono mescolati insieme elementi di un immaginario che ho già visto altrove ma che non mi hanno mai convinta davvero del tutto, come invece è successo ora: è come vedere la stessa intensità del richiamo della strada, di un mondo un po ' di confine, senza speranza, urlato nel dialetto romanaccio di "Non essere cattivo"(2015) di Claudio Caligari unito ad alla visione violentemente realistica del Tarantino di Pulp Fiction, con tanto di citazioni e splatter, ma con una lucidità d'insieme e una misura giusta e perfetta che in Tarantino io non ho mai trovato. A questo si unisce una caratterizzazione e un lavoro sulla psicologia dei personaggi, sulla loro fisicità, sul loro modo di esprimersi , che è talmente precisa e accurata che definirla la ciliegina sulla torta non rende.
Ecco, dovessero chiedermelo ora, dopo anni in cui dico che prenderò seriamente Tarantino solo quando farà un film con un certo spessore narrativo, posso tranquillamente dire che Mainetti è riuscito con questo film ad essere tarantiniano nella maniera esatta e perfetta che cercavo da tempo nell'originale. 
Ed io spero che continui così, trovando in tutto questo una sua propria "poetica", un suo proprio tratto distintivo, affinando le già buone doti registiche che ha, ché nel prossimo film mi aspetto una sorpresa degna del termine.
Come direbbe lo Zingaro, mi aspetto er botto e sti cazzi.

(Potrei aprire un ulteriore capitolo sulla schiena, la voce e il bicipite di Santamaria, ma soprattutto sull'immenso e inarrivabile talento che è Luca Marinelli, ma ho idea che non renderei giustizia né all'uno né all'altro, quindi chiudo qui.)

sabato 12 marzo 2016

"  [...] Mi manca la sera in cui non ho concluso niente. E anche se tornassi indietro nel tempo e sapessi già che la prima volta non avevo concluso niente so che andrebbe nello stesso modo. Perché in fondo, sono sempre la stessa persona che si lascia guardare senza rispondere e guarda te per avere risposte. Perché, come ora, anche ai tempi sapevo cosa volevo. E non ho comunque concluso niente. [...]"
dal blog Dodicirighe

Smettere di non concludere niente  e sapere quello che voglio (o cominciare a volere davvero quello che so...) sarebbero un'ottima cosa.
E non parlo di sentimenti.